Di ritratti, amici e somiglianze

Pochi giorni fa ero a Vienna e all’Albertina ho trovato una gran bella mostra su Raffaello incentrata sul rapporto tra gli schizzi preparatori e le opere finite1. Verso la fine del percorso arrivo davanti a questo splendido disegno per la Trasfigurazione

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mentre lì a fianco, giustamente, campeggia una riproduzione della pala per dare un’idea di quale fosse il pezzo interessato

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Osservando la riproduzione alla ricerca dei due apostoli del disegno, mi cade l’occhio su quello che dovrebbe essere Giovanni, cioè il barbuto al centro della scena che indica col braccio teso il ragazzo indemoniato sorretto dal padre.

Senza nome

Guardarlo e sentirsi accendere la classica lampadina in testa è tutt’uno. Continuo a ripetermi “Io questo l’ho già visto” e dopo qualche secondo lo ritrovo prima nella memoria poi, per sicurezza, su internet col cellulare: è l’altro personaggio del celebre Autoritratto con un amico dipinto da Raffaello poco prima della sua morte nel 1520

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La somiglianza è fortissima e qualche domanda sorge spontanea. L’identità dell’amico è ancora oggi un mistero: qualcuno sostiene che si tratti del suo maestro di scherma (a causa della spada). qualcuno di Baldassarre Peruzzi o Antonio da Sangallo il Giovane o uno dei suoi aiuti come Polidoro da Caravaggio o Giulio Romano. Personalmente, dopo aver notato il suo ruolo nella Trasfigurazione, suppongo si tratti di Giulio Romano, ma spieghiamo perché.
La Trasfigurazione fu l’ultima opera alla quale Raffaello mise mano. L’artista morì lasciandola forse in piccola parte incompleta ma la tela venne considerata da subito una sorta di testamento spirituale al punto da essere posta vicino alla bara prima del funerale. Ma questo testamento spirituale potrebbe nascondere qualche traccia di quello materiale dal quale sappiamo che Raffaello lasciò la bottega con tutti gli affari in sospeso a Giulio Romano, suo allievo prediletto e, di fatto, capo degli aiutanti. L’ipotesi spiegherebbe sia l’evidente benevolenza trasparente dall’Autoritratto con un amico, che in effetti dà abbastanza l’idea di una sorta di investitura, sia l’aver dipinto la stessa persona nei panni  di quello che dovrebbe essere l’apostolo Giovanni, il più amato da Gesù al punto da affidargli la propria madre, che nella Trasfigurazione ha una posizione assolutamente centrale.
Per un attimo ho addirittura pensato che la questione dell’affidamento della madre potesse avere un riscontro nella realtà ma a quanto sono riuscito a capire Raffaello non doveva essere in rapporti idilliaci con la donna che aveva contribuito a crescerlo (la madre, Maria Ciarla, era morta quando l’artista aveva solo otto anni) cioè Berardina di Parte, seconda moglie del padre. Lo si può intuire da un documento del 1500 nel quale Raffaello è chiamato davanti al Podestà di Urbino per approvare la decisione presa dalla famiglia paterna rappresentata da suo zio Don Bartolomeo (anche il padre, Giovanni Santi, era morto anni prima, nel 1494) in una causa legale con la donna per questioni di spartizione dei beni.
Ovviamente, in mancanza di documenti attestanti l’identità del giovane (che magari un giorno o l’altro potrebbero anche spuntare da qualche archivio, chissà), la mia è solo un’ipotesi ma mi pare possa avere una qualche fondatezza.

Già che siamo in tema di fisiognomica, vorrei far notare anche un’altra somiglianza che, anche se un po’ meno marcata, ha comunque destato la mia curiosità.
Alla suddetta mostra era presente il bellissimo Ritratto di giovane del Thyssen-Bornemisza di Madrid, anch’esso dipinto negli ultimi tempi poco prima della morte

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Scartabellando per la rete in cerca di materiale su Giulio Romano mi sono imbattuto nella sua pala per la chiesa genovese di Santo Stefano che ritrae la lapidazione del santo dedicatario (che, mea culpa, non ho mai visto dal vero)

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Anche in questo caso mi pare di poter dire che tra il ragazzo e il Santo Stefano sussista una certa somiglianza ma purtroppo nemmeno in questo caso sappiamo chi fosse il giovane ritratto. Sulla scorta della descrizione contenuta in un inventario seicentesco, si è fatto il nome di Pier Luigi Farnese, figlio naturale del cardinale Alessandro Farnese poi papa Paolo III, all’epoca adolescente e forse, anche in questo caso, potrebbe esserci un appiglio per quanto labile. Nel 1521, anno in cui probabilmente Giulio Romano dipinse il Santo Stefano di Genova, il suo committente cardinale Giberti era vicinissimo al ben più potente collega Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, il quale a sua volta in sede di conclave (è l’anno della morte di Leone X) si era legato al cardinale Farnese invitando apertamente a votare per lui (“ch’è gentilissimo, nobilissimo, litterato, costumato et degno“). Farnese, dal canto suo, non era stato da meno promettendo al Medici, in caso di elezione al soglio pontificio, “di conservarlo e farlo più grande che mai“. L’alleanza Medici-Farnese dovette aspettare altri due anni per dare i suoi frutti dato che dal conclave era uscito papa l’olandese Adriano VI, candidato di Carlo V, che però visse assai poco, ma forse non è poi così improbabile che un noto fedelissimo del cardinale Medici avesse deciso di ingraziarsi un alleato del proprio mentore nonché probabile futuro papa mettendo il suo primogenito nei panni di Santo Stefano.
Curiosità supplementare: per molto tempo il ritratto del giovane è stato attribuito proprio a Giulio Romano.

  1. Purtroppo la mostra finiva oggi, 7 gennaio, ma chi volesse procurarsi il catalogo, che mi è sembrato ben fatto e dal prezzo assolutamente ragionevole, può acquistarlo qui.

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