Nel panorama dei giardini tardorinascimentali di metà cinquecento, il Sacro Bosco di Bomarzo occupa una posizione contemporaneamente eccentrica ed esemplare. L’apparente contraddizione si nutre del suo essere un unicum che sposta il limite dell’artificio molto più in là di quanto avessero osato fare i suoi contemporanei (e lo fa, paradossalmente, rinunciando all’artificio per eccellenza cioè l’addomesticamento geometrico del paesaggio) nello stesso momento in cui raffigura e rende tangibile uno dei nuclei dell’estetica manierista, forse il più intimo e affascinante, cioè quel ripiegamento super-intellettuale nella dimensione radicalmente anticlassica del bizzarro, del contorto e del melanconico.
Siamo negli anni in cui intorno a Villa Gambara (poi Lante) a Bagnaia, Villa d’Este a Tivoli o Palazzo Farnese a Caprarola prendono forma altri grandi giardini che sono allo stesso tempo luoghi di svago e macchine culturali che mettono in scena un complicato intreccio di allegorie alchemiche e rimandi letterari, filosofici e religiosi tendenti a creare un microcosmo simbolico sempre in equilibrio sulla linea sottile tra colto divertissement e percorso iniziatico. Ma questi giardini hanno in comune tra loro alcune caratteristiche che li differenziano radicalmente da Bomarzo: esplodono e moltiplicano l’antico modello di hortus conclusus articolandolo in un percorso scandito da tappe corrispondenti a eventi chiave dell’esistenza umana (nascita, morte, perdita e ritrovamento di sé) che sovente sfociano in un evento magico-salvifico (riscoperta di un paradiso perduto) e questa articolazione avviene per zone delimitate e dotate di uno o più significati. Tutto questo sotto l’egida di un dominio intellettuale che trasuda armonia, regolarità e simmetria a rendere immediatamente percepibile la mano dell’uomo. Spesso il gioco intellettuale veniva ripetuto anche su grande scala affiancando al giardino spirituale un‘area dall’aspetto più rustico e selvatico, a volte destinata anche a colture produttive, come nel caso del barco1 di Villa Lante, rusticità che però non la esentava dalla presenza di simbolismi mitologici in forma di fontane, statue o labirinti2.
Nelle immagini una pianta d’epoca di Villa Gambara/Lante (i giardini a sinistra e il barco a destra) e la parte iniziale (la “Graticola di San Lorenzo”) come si presenta oggi
Il boschetto (il suo artefice amava chiamarlo così) di Bomarzo da questo punto di vista si pone in una posizione di decisa alterità sia per la mancanza di un itinerario univoco che per il contesto assai più selvatico che, soprattutto, per il messaggio edonistico, ironico e anticlassico che vuole veicolare.
Ma che tipo di persona era Vicino Orsini, nato a Roma nel 15233 dal ramo degli Orsini di Mugnone, cioè la persona al quale dobbiamo il Bosco? Chiederselo non è ozioso perché la risposta contiene buona parte della spiegazione sul perché Bomarzo fosse così diverso dagli altri giardini dell’epoca.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che si trattasse di una personalità un po’ fuori dai canoni del tempo. Intellettualmente avidissimo, lettore instancabile, uomo d’armi poco amante della guerra, amico di personaggi influenti ma alieno alla mondanità romana (e per questo preso in giro come un selvatico che amava isolarsi nei boschi), fedele cliente dei Farnese ma politicamente e religiosamente incline a uno scetticismo ironico e profondo, amante della vita ma melanconico e segnato da dolori personali per i quali forse Bomarzo volle essere, almeno in parte, un esorcismo.
Quando Pier Francesco II Orsini, del ramo di Mugnone della nota famiglia nobiliare romana, nasce il 4 luglio 1523 a Roma , non sa ancora che per tutta la vita verrà chiamato Vicino. Educato alla guerra come da tradizione familiare, nel suo bagaglio non mancherà anche una preparazione classica sotto la guida di un certo Nicola Monaldeschi. Quando il padre Gian Corrado muore nel 1535, per Vicino inizia una lunga vertenza legale con suo fratello minore Maerbale e altri parenti per la spartizione dell’eredità, vertenza che finirà solo nel 1542 grazie all’arbitrato del quasi coetaneo cardinale Alessandro Farnese e che lo lascerà in possesso del palazzo di famiglia a Bomarzo e relativi beni.
In questo ritratto di Lorenzo Lotto potrebbe esserci un giovane Vicino Orsini
In quegli anni lo troviamo a Venezia, forse a più riprese, dove stringerà contatti con letterati e circoli culturali locali che dureranno tutta la vita4. Nel 1545 sposa Giulia Farnese, parente del cardinale Alessandro, un matrimonio politico che però si rivelerà felice e due anni dopo parte con le truppe papali per il nord Europa verso le guerre tra gli Asburgo e la Francia. Prigioniero per due anni, farà ritorno solo nel 1556 a parte un breve soggiorno nel 1552 di cui abbiamo testimonianza dalle iscrizioni su due obelischi che con ogni probabilità rappresentano un abbozzo dei lavori per il Bosco.
Mentre la prima epigrafe snocciola un laconico “VICINO ORSINI NEL MDLII”, nella seconda troviamo “SOL PER SFOGARE IL CORE”, citazione da Vittoria Colonna
Scrivo sol per sfogar l’interna doglia,
di che si pasce il cor, ch’altro non vole
(Rime I)
che a sua volta l’aveva presa in prestito da Petrarca
Et certo ogni mio studio in quel tempo era
pur di sfogare il doloroso core
in qualche modo, non d’acquistar fama
(Canzoniere, CCXCIII)
In entrambi i casi si tratta di versi dedicati alla perdita della persona amata utilizzati da Vicino per testimoniare l’amarezza del distacco dalla moglie Giulia in vista di una nuova partenza, ma contengono già anche il nucleo del meccanismo che anni dopo darà vita al Bosco vero e proprio cioè il tentativo di sedare cupezza e sconforto tramite la creazione di un luogo incantato nel quale rifugiarsi.
Tornato sui campi di battaglia, Vicino cade prigioniero e passa due anni nelle Fiandre in mano agli imperiali finché, nel 1555, viene liberato e riprende la strada di casa. Impiegato in guerricciole locali e missioni diplomatiche, nel 1558 Paolo Giordano Orsini lo chiama a Firenze per collaborare ai preparativi del suo matrimonio con la figlia di Cosimo I. I due anni successivi saranno cruciali nella vita e nell’immaginario figurativo di Vicino: a Firenze infatti, grazie anche a una attenta osservazione degli apparati effimeri preparati per l’occasione, entra in contatto con elementi iconografici e stilistici che caratterizzeranno pesantemente il Bosco; l’anno dopo, complice la pace di Cateau-Cambrésis, abbandona definitivamente il mestiere delle armi e nel 1560 perde l’amatissima moglie Giulia, evento che farà da detonatore a un’idea che doveva animarlo già da qualche anno: la costruzione di una scenografia atta a ospitare la sua anima inquieta e travagliata.
È dal tempietto dedicato alla moglie infatti che prende il via il primo corposo stralcio di lavori per il Bosco negli anni 1561-63. La costruzione non si sottrae alla variegata polisemia tipica dell’impresa Orsiniana: originariamente forse deputata a contenere le spoglie mortali di Giulia, si nutre dello spunto letterario proveniente dalla Hypnerotomachia Poliphili, di astrologia e della suggestione fiorentina della cupola.
Sussistono ben pochi dubbi sul fatto che il celebre romanzo allegorico del 1499 sia stata la principale ispirazione per questo primo allestimento del Bosco. Così come l’opera è dedicata alla scomparsa Polia (“quae vivis mortua, sed melius […] quae sepulta vivis“) il Bosco è dedicato a Giulia come risultava da un’epigrafe oggi scomparsa (“alla felice memoria dell’Illustriss. Sig. Giulia Farnese“) apposta proprio sul tempio ispirato a quello “alla physizoa Venere consecrato” descritto nel romanzo. Il pronao introduce una cella ottagonale come i battisteri (il numero otto simbolo di resurrezione, ottava casa astrologica della morte e della rinascita) mentre da un disegno di Giovanni Guerra di pochi decenni dopo (conservato all’Albertina di Vienna) sappiamo che in origine il basamento era decorato con diciotto medaglioni raffiguranti gli emblemi araldici dei casati Orsini e Farnese, i dodici segni zodiacali più il sole e due episodi della vita di Cristo (crocifissione e resurrezione). La cupola, ispirata a quella di Santa Maria del Fiore5, nel tamburo ha quattro occhi aperti verso i quattro punti cardinali e uno gnomone anch’esso simile a quello della cattedrale fiorentina.
Che la tomba della donna amata fungesse anche da “centrale astrologica” non stupisce dato che Vicino, coerentemente con le passioni dell’epoca, era avido di illuminazioni del genere sulle sue vicende personali e familiari: da una delle lettere del ricco epistolario intrattenuto con l’amico prediletto Jean Drouet (“compare et come fratello“) apprendiamo della richiesta di oroscopi per i figli mentre egli stesso era convinto di essere nato sotto una combinazione sfavorevole giungendo perfino a calcolare la data della propria morte (per altro sbagliando di un solo anno), ma tutto il parco è popolato di riferimenti astrologici attraverso i richiami alle costellazioni insiti in molte delle statue e immersi in una rete di sottotesti ermetici, alchemici, mitologici e letterari che non si escludono mai reciprocamente. L’Orsini era perfettamente conscio di questo gioco sofisticato tanto da scrivere ad Alessandro Farnese il 22 aprile 1561 lanciando una sorta di sfida alla sua erudizione fuori dalla norma: “Per vedere sello posso far vedere meraviglioso a Lei come a molti balordi che vi vengono, ma questo non avverrà, perché la meraviglia nascendo dall’ignorantia non può cadere in Lei“.
Da un altro dei disegni che il Guerra realizzò a Bomarzo nel 1598 apprendiamo un’altra citazione dell’Hypnerotomachia. La fontana di Pegaso infatti, oggi spoglia e in pessime condizioni, in origine esibiva sul bordo le statue delle nove Muse con Apollo proprio come narrato nel romanzo circa il già detto tempo di Venere.
Sulla stessa falsariga arriviamo alla nicchia contenente le Tre Grazie (“de esse le due Eurydomene, et Eurymone, cum il virgineo aspecto di rimpecto ad nui manifestantise. La tertia Eurymeduse, rivoltata cum le bianchissime spalle ad nui“).
Il percorso letterario continua col ninfeo, richiamo alle le ninfe che accolgono il protagonista Polifilo, e la fontana allungata decorata da delfini (“dicto delphino alla deformata similitudine circumacto se aduncava“) per l’imbarcazione di Cupido che accompagna Polifilo a Citera fino al santuario di Venere con annesso teatro che Orsini riprende fedelmente, statua di Venere inclusa.
Questo primo itinerario, che si dipanava attraverso il Bosco dal tempietto, venne realizzato negli anni tra il 1561 e il 1564. A dircelo sono due lettere: la prima, in cui si accenna per la prima volta al Bosco, ad Alessandro Farnese del 20 aprile 1561 e la seconda, nella quale si descrive come completato il teatro, a Annibale Caro6 del 20 ottobre 1564, ma è negli anni successivi che il Bosco viene completato con un secondo e più complesso ciclo comprendente le creazioni più grottesche e spettacolari.
Come già detto, Vicino Orsini era un uomo dotato di grande curiosità intellettuale e robusti appetiti culturali. In una lettera del 1565 Sansovino ce lo descrive come uomo “ch’ama non pur l’armi ma le lettere” bramoso di avere “qualche sorta d’avisi di tutte le parti del mondo, Occidentali, Australi” e “raguaglio minuto per omnibus et per omnia” mentre dalla corrispondenza con Drouet lo sappiamo molto interessato a libri nuovi che narrassero di “cose nove, saporite e stravaganti” o ad “avvisi dall’India” che suggeriva all’amico di procurarsi presso l’ambasciatore portoghese. È da questo humus formato dai resoconti di viaggio da continenti esotici o recentemente scoperti e quella letteratura cavalleresca di cui era senza meno imbevuto che prende forma la seconda fase del Bosco, in parte anche questa volta fomentata da una tragedia familiare che lo colpisce nel profondo.
In questa fase sono le invenzioni di Ariosto, Pulci, Tasso padre e figlio (Vicino era amico di Bernardo Tasso, padre di Torquato e anch’egli poeta) a fondersi in visioni magico-meravigliose popolate da giganti, mascheroni, creature bizzarre e fuori scala. Così la tartaruga è figlia sia di quella gigantesca del Morgante che di quella ornata da un pennone con una vela raffigurata nell’emblema utilizzato dal duca Cosimo I e da suo figlio a Firenze (che doveva aver visto spesso durante il suo soggiorno) mentre la Fama che la sormonta deriva sia, ancora, dall’Hypnerotomachia che, probabilmente, da quella esibita a Firenze nel 1565 per il matrimonio tra Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria che da quella ammirata molti anni prima, nel 1542, a Venezia durante la rappresentazione della Talanta di Pietro Aretino nella quale figurava “una Fama, con un piede in terra e l’altro in aria, posata con l’altro, cioè con quello di terra, in sur un mondo in moto: sonando due trombe con una bocca medesima” (G. Vasari a Ottaviano de’ Medici). Il tutto, in aggiunta, sta a significare anche il celebre motto festina lente indicante la necessità della prudenza pur nell’accavallarsi tumultuoso degli eventi e che godeva di enorme fortuna già dall’inizio del Rinascimento.
Di fronte alla testuggine, sull’altra sponda del piccolo torrente, troviamo l’Orca o Balena, mostruosa creatura marina dalle fauci spalancate intorno alla quale originariamente dei giochi idraulici ideati dallo stesso Vicino creavano un ribollire d’acqua. L’Orca deriverebbe dall’Orlando Furioso e insieme alla testuggine simboleggia la prudenza da utilizzare di fronte a un pericolo.
Sempre dall’Ariosto proviene il gigantesco e folle Orlando che vaga nudo e squarta un pastorello7
Il celebre mascherone a bocca aperta è invece un Plutone, guardiano infernale, che infatti nel contorno della bocca recava i versi “Lasciate ogni pensiero o voi ch’entrate” parafrasando la Commedia dantesca e giocando a invertirne il senso etichettando come bocca dell’inferno un luogo di frescura e riposo.
L’elefante turrito rappresenta l’Africa e il dominio dei Mori e con ogni probabilità deriva dai versi della Gerusalemme Liberata che descrivono gli elefanti avvistati dallo scudiero di Tancredi nel campo saraceno e/o dal capo saraceno Adrasto che montava un elefante e combatteva agli ordini di Solimano. La citazione assume tinte fosche se si considera il corpo del soldato che l’elefante stringe nella proboscide: nel 1571 infatti Orazio, uno dei figli di Vicino, era infatti caduto durante la battaglia di Lepanto e la statua può essere facilmente interpretata come una sorta di monumento funebre dedicato al giovane sulla falsariga di quanto Vicino aveva fatto per sua madre col tempietto.
I tre ettari del Bosco abbondano di figure e analizzarle tutte non è lo scopo di questo articolo: vi sono stati scritti sopra interi volumi e non credo potrei aggiungere gran che. Vale la pena però soffermarsi un attimo su uno degli elementi che non risultano integrati in nessuno dei due cicli narrativi descritti, cioè la casa pendente.
È tra le realizzazioni più antiche di Bomarzo e venne eretta da Giulia, la moglie di Vicino, nel 1555 mentre il marito era prigioniero di guerra. Il suo significato sarebbe quello di raffigurare la casa Orsini come pericolosamente inclinata, quindi in pericolo, tenuta in piedi dalla roccia alla quale è appoggiata così come Giulia aveva tenuto in piedi il feudo durante la lunga assenza del marito. Ad avvalorare l’ipotesi una dedica al cardinale trentino Cristoforo Madruzzo, cioè colui che intercesse presso gli imperiali per la liberazione di Vicino (“CRIST MADRUTIO PRINCIPI TRIDENTINO DICATUM“). Un altro cartiglio apposto sulla costruzione invece recita “ANIMUS QUIESCENDO FIT PRUDENTIOR ERGO” cioè “L’animo col riposo si fa più saggio” ma a tutt’oggi il nesso con la casetta sbilenca continua a sfuggire. Resta comunque degna di nota la comunione di spiriti tra marito e moglie, entrambi appassionati costruttori di stranezze.
Se queste sulla casa sono le uniche due iscrizioni in latino di tutto il parco, il resto pullula (o, più esattamente, pullulava visto che molte sono andate perdute o il tempo le ha rese illeggibili) di sentenze apparentemente tendenti in parte a celebrare l’impresa costruttiva e in parte a confondere e meravigliare il visitatore più che a spiegargli cosa stesse vedendo8. In una delle più celebri infatti una sfinge pone al visitatore l’interrogativo “Tu ch’entri qua pon mente / parte a parte / et dimmi poi se tante / meraviglie / sien fatte per inganno / o pur per arte” nel quale “arte” e “inganno” sono di fatto sinonimi che stanno lì a dirci come tutto sia inganno e apparenza. Vicino si trasforma così nel demiurgo di un mondo meraviglioso, una selva fatata di cui lui è il mago/nume titolare come nei poemi cavallereschi che tanto gli stavano a cuore9. Il senso profondo del Bosco è tutto in questo gioco sottile, perennemente in equilibrio tra memoria, cultura letteraria e voglia di stupire; la creazione di Vicino è una macchina teatrale che mette in scena uno spettacolo diverso per ogni visitatore a seconda del grado di penetrazione dei significati che riesce a raggiungere, che lo invita a perdersi ma che in fondo gli dice che tutto è artificio e che alla fine del percorso l’incanto sarà spezzato per ritrovarsi e tornare a riassaporare il gusto agrodolce della realtà come testimonia un’altra epigrafe: “Che ognuno vi incontri ciò che più gli sta a cuore e che tutti vi si smarriscano“. Ecco la grande differenza dai grandi giardini di cui si diceva all’inizio: mentre quelli tendono a una salvezza e un’illuminazione finali da guadagnare attraverso un percorso iniziatico fatto di geometrie intellettuali, il Bosco evoca un mondo di pulsioni irrazionali, incubi e sogni titillando un lato dell’essere umano che la convenienza morale dell’epoca trovava quanto mai inopportuno. Se i primi rispettano ancora i luminosi paradigmi rinascimentali, l’anima inquieta di Vicino e il suo grande esorcismo ci accompagnano fin quasi nel disincanto barocco.
L’unica ritratto certo di Vicino Orsini nella medaglia di piombo opera del senese Pastorino dei Pastorini (1508-1592) conservata al British Museum di Londra
Tornando all’aspetto materiale del Bosco, sull’autore dell’impianto generale nel corso degli anni si sono fatte diverse ipotesi. I nomi di Pirro Ligorio, Bartolomeo Ammannati, Raffaello da Montelupo e Jacopo Barozzi da Vignola si sono susseguiti nel tentativo di dare una paternità più nobile a quella che però, e con buone ragioni, è oggi ritenuta opera dello stesso Vicino Orsini il quale, per altro, era tutt’altro che ignorante di architettura.
In gioventù aveva fatto parte della commissione indetta da Paolo III per dirimere la controversia tra Michelangelo e Antonio da Sangallo circa le opere di fortificazione del Vaticano; inoltre fra i libri probabilmente appartenutigli era presente un’edizione dei Sette Libri dell’Architettura di Sebastiano Serlio e grazie all’amicizia che lo legava ai rispettivi proprietari era di casa nelle ville e nei giardini che negli stessi anni stavano prendendo forma a Bagnaia, Caprarola, Gallese. Se a questo aggiungiamo i noti rapporti con letterati come Caro o Sansovino da sempre interessati all’arte, non è difficile immaginare un Vicino colto dilettante e progettista in proprio della sua creazione che magari, di quando in quando, montava a cavallo per andare a trovare gli amici Gambara, Farnese, o Madruzzo e interpellare gli architetti al lavoro sulle loro dimore circa qualche aspetto particolarmente tecnico. Da ultimo, risulta difficile immaginare un grande architetto dell’epoca al lavoro su un progetto come quello di Bomarzo, così lontano dalla sensibilità media dell’epoca. Con ogni probabilità uno dei suddetti professionisti dell’architettura avrebbe giudicate poco “serie” le richieste di Vicino il quale inoltre, pur essendo ovviamente molto benestante, non disponeva degli stessi enormi capitali a disposizione dei suoi amici e quindi della possibilità di assoldare le archistar del momento.
Vicino Orsini muore nella sua amata Bomarzo il 28 gennaio del 1585. Ha 62 anni, quattro figli maschi, due femmine e altri tre o quattro figli naturali avuti dopo la morte della moglie. Solo due anni prima in una lettera all’amico di sempre Drouet parlava della morte come di un “pagare il debito alla Natura et resolverse farlo senza tante cerimonie et querele“. Se ne va come ha vissuto: con disincanto, distacco e quella malinconia leggera mascherata dietro la voglia di vivere e godere della bellezza sempre e comunque perché del doman, come forse aveva imparato molti anni prima a Firenze, non v’è certezza, nemmeno di quello dell’aldilà.
Gli ultimi anni della sua vita Vicino li passa completamente ritirato dal mondo nel suo castello di Bomarzo tra studi, visite di amici e amori fugaci10, lontano dalla corte papale di cui irride l’ipocrisia e sopra quel Bosco che ha tanto amato e che ha voluto “come un di quei castelli d’Atlante dove quei paladini e quelle donne stavano per incantamenti spensierati“. Continuerà a mettervi mano con aggiustamenti, aggiunte e improbabili colorazioni11 fin quasi agli ultimi giorni come si trattasse di una creatura viva. forse l’unica eredità di un qualche valore che sentiva di essersi lasciato alle spalle. E in un certo senso aveva ragione perché, anche a fronte della scarsa qualità artistica delle statue, ciò che ci ha lasciato è uno dei monumenti più puri dello spirito manierista: radicalmente anticlassico, eccentrico, eterodosso, sotterraneo, amorale, ironico, amaro, coltissimo e lontano da facili e ingenue concessioni all’esoterico e al demoniaco, davvero qualcosa “che sol se stesso e null’altro somiglia” come fa dire a una delle tante epigrafi. La controriforma incarnata nel barocco farà strame di quasi tutto relegando l’emotività e la meraviglia a veicoli privilegiati per l’ammaestramento religioso degli incolti e il sogno di Vicino inizierà a morire poco dopo di lui.
Gli eredi infatti non provvederanno al mantenimento del Bosco abbandonandolo al suo destino di deperimento. Non molti anni dopo, complice un terremoto, la rovina è già abbastanza evidente e l’area diviene di fatto area di pascolo per le greggi fino al primo dopoguerra.
Herbert List, 1952
Dopo quasi quattrocento anni di incuria, nel 1954 il terreno del Bosco viene acquistato da Giovanni e Tina Bettini i quali lo recuperano per quanto possibile cercando anche di ricostruire la posizione originaria di alcune statue che erano state spostate nel tentativo di restituire coerenza al programma iconografico originario.
Quello che possiamo ammirare oggi purtroppo non è il Bosco esattamente come lo aveva pensato Vicino Orsini, anche perché allora la vegetazione doveva risultare assai più fitta e lussureggiante. I percorsi sono lievemente cambiati e di alcune statue forse non conosceremo mai la collocazione originaria, ma quanto rimasto è più che sufficiente a darci conto di un’epoca di transizione e di uno dei suoi protagonisti che, pur nella sua marginalità, visto con gli occhi di oggi appare più moderno di molti di quelli che ebbero la ventura di precederlo o di seguirlo.
A chi volesse approfondire gli studi e le interpretazioni sul Bosco di Bomarzo, con dovizia di particolari su tutte le statue e le strutture, suggerisco:
– H. Bredekamp , “Vicino Orsini e il Sacro Bosco di Bomarzo. Un principe artista ed anarchico”, Edizioni dell’Elefante, 1989
– M. Calvesi , “Gli incantesimi di Bomarzo. Il Sacro Bosco tra arte e letteratura”, Bompiani, 2000
– A. Bruschi, “Il problema storico di Bomarzo” (in “Oltre il Rinascimento – Architettura, città, territorio nel secondo cinquecento”), Jaca Book, 2000
- “Luogo dove si riserrano animali selvaggi d’ogni maniera, a fine di poterne prender diletto colla caccia” (Vocabolario degli accademici della Crusca, 3° edizione, 1691)
- Una descrizione più dettagliata dei significati delle varie zone di Villa Lante si trova qui
- Venne battezzato nella vecchia Santa Maria in Transpontina che si trovava molto vicina a Castel S. Angelo, anzi così a ridosso che dopo le infauste vicende del Sacco di Roma del 1527 si decise di abbatterla e ricostruirla poco più in là perché ostacolava il tiro dei cannoni della fortezza papale. La nuova versione, portata a termine solo sessant’anni più tardi, si affaccia su quella che oggi è Via della Conciliazione
- Francesco Sansovino molti anni dopo (1570) gli dedicherà la sua edizione dell’Arcadia di Sannazaro paragonando apertamente il Bosco di Bomarzo alla selva descritta nell’opera
- Di questa ispirazione abbia testimonianza diretta per mano di Vicino che il 9 ottobre 1565 scrive così al card. Alessandro Farnese: “quanta consolation hebbi nel apparir d’un colle, vedi la coppola del mio tempio qual me riescie non men nel suo grado proportionata ch’all’apparita de Firenze quella di S.ta Maria del Fiore“
- Di Annibale Caro avevo già parlato in merito al programma iconografico stilato per le stanze di Palazzo Farnese a Caprarola
- e quanto più sbarrar puote le braccia,
le sbarra sì, ch’in duo pezzi lo straccia;
a quella guisa che veggiàn talora
farsi d’uno aeron, farsi d’un pollo - Più sibilline ancora, nella loro apparente contraddittorietà, le epigrafi poste sulle terrazze del castello: “Mangia, bevi e gioca / Spregia le cose terrene“, “Dopo morte nessuna voluttà / Dopo morte vera voluttà“, “Il sapiente dominerà gli astri / La prudenza è da meno del fato / E dunque?“, “Conoscersi / Vincersi / Vivere per sé stessi“, “I beati tennero la via di mezzo“
- Probabilmente nell’intento di omaggiare Tasso padre, autore dell’Amadigi in cui figura il mago Oronte con la sua foresta incantata, Vicino arriverà a chiamare Oronthea una figlia naturale nata nel 1575
- Nel 1583, un anno prima della morte, in una lettera asseriva con la consueta lucidità di “essere ancor bono per li diletti de Venere […] perché alle volte giova considerare e intendere una cosa come se fusse vera”
- Anni prima aveva chiesto a Drouet di procurargli dei colori “tenaci” adatti a dipingere le statue del parco alla maniera greco-etrusca
Un pensiero riguardo “"che sol se stesso e null'altro somiglia" Vicino Orsini e il Sacro Bosco di Bomarzo”
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